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Stefania Bisaglia, Lia Montereale

Il regime dichiarativo in sede di esportazione di beni culturali – profili problematici

*Stefania Bisaglia, Dirigente del Servizio IV Circolazione presso la Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura

*Lia Montereale, Funzionario amministrativo presso la Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura in qualità di responsabile del coordinamento degli Uffici esportazione e del contenzioso


Foto tratta dal SUE (Sistema informativo uffici esportazione), su autorizzazione della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio – non riproducibile

Bene presentato con autodichiarazione, articolo 65 commi 4 e 4-bis del d.lgs. 42 del 2004


1. Premessa

Con la legge n. 124 del 2017 (“Legge annuale per il mercato e la concorrenza”) il legislatore ha allargato il c.d. “regime dichiarativo” all’esportazione, in base al quale determinate categorie di beni (nella specie, le cose comprese tra cinquanta e settanta anni di età, oppure aventi più di settanta anni ma con valore inferiore a 13.500 euro, fatte salve alcune specifiche eccezioni) possono uscire dal territorio nazionale senza la previa autorizzazione da parte dell’Ufficio esportazione del Ministero della cultura, ma per mezzo di una dichiarazione sostitutiva degli interessati (cfr. art. 65, commi 4 e 4-bis, del Codice).

 

Pertanto, nei casi di cui all'articolo 65, commi 4 e 4- bis, del Codice dei beni culturali, l’Ufficio esportazione non è più chiamato a pronunciarsi con un provvedimento espresso di carattere autorizzatorio, qual è l’attestato di libera circolazione, ma svolge una funzione di verifica in ordine alla regolarità formale della dichiarazione, resa dall’interessato ai sensi dell’articolo 65, comma 4-bis, del predetto Codice, nonché di impulso, quanto all’eventuale procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale ai sensi dell’articolo 14 del predetto Codice.


2. La natura della dichiarazione sostitutiva

Le novelle del 2017, ampliando il novero dei casi sottoposti al regime della dichiarazione sostitutiva, prima riservata agli oggetti fino a cinquant’anni, generalmente privi di interesse culturale, hanno comportato la necessità di chiarire la natura della dichiarazione in esame e dei connessi poteri esercitabili dell’amministrazione.


Tale dichiarazione, infatti, non è da sola sufficiente a consentire l’esportazione dell’opera, essendo necessaria un’attività amministrativa di controllo che si traduce nell’apposizione di un timbro e nella restituzione del documento al dichiarante, a valere quale titolo all’esportazione. Si tratta pertanto di un atto composto dall’autodichiarazione dell’interessato e dal “timbro” apposto dall’amministrazione, sostitutivo dell’autorizzazione all’esportazione (attestato di libera circolazione) che resta invece necessaria per le opere d’arte aventi più di settant’anni e valore superiore a 13.500 euro. Secondo la ricostruzione offerta dal giudice amministrativo in merito al c.d. regime dichiarativo, infatti, “la legge n. 124 del 2017 ha perseguito un intento di semplificazione con riferimento alla uscita dal territorio nazionale dei beni indicati dall’art. 65, comma 4, che sono esplicitamente sottratti al regime della “autorizzazione” previsto in linea generale dall’art. 68 seguente. In tali casi, quindi, l’ufficio esportazione non è più chiamato a pronunciarsi con un provvedimento espresso di carattere autorizzatorio, quale è il rilascio dell’attestato di libera circolazione del bene (ovvero, specularmente, con il diniego di adozione di tale atto), ma svolge una mera funzione di verifica in ordine alla regolarità formale della autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 65, comma 4 bis, nonché di impulso, quanto all’eventuale procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale eccezionale ai sensi dell’art. 14, da parte della direzione generale” (cfr. TAR Lazio n. 5861 del 2021). Il Giudice amministrativo ha inoltre sottolineato che, in tali ipotesi, “deve ritenersi legittima la condotta dell’ufficio esportazione che rifiuti di riconsegnare alla parte privata la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà vidimata per accettazione, posto che tale documento costituirebbe autonomo titolo per esportare il bene, nonostante non sia stata ottenuta la autorizzazione ministeriale prevista dalla legge in via cautelare (TAR Lazio cit.).


La pronuncia ha quindi chiarito che, qualora l’amministrazione non intenda consentire l’esportazione dell’opera per la quale è stata presentata l’autodichiarazione, non dovrà procedere con un formale diniego all’esportazione, preceduto dal preavviso di diniego come previsto dall’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990, non trattandosi di un provvedimento autorizzatorio. L’amministrazione, pertanto, laddove ravvisi l’interesse culturale dell’opera, dovrà limitarsi a non riconsegnare la dichiarazione vidimata per accettazione e ad avviare il corrispondente procedimento di dichiarazione di interesse culturale del bene.


Il Giudice ha anche annullato in parte qua la circolare del Ministero n. 13 del 2019 in cui, assimilando i due procedimenti, si davano indicazioni di procedere con il diniego anche nel caso delle dichiarazioni sostitutive. 


In sintesi, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà prevista nei casi di cui all’articolo 65, commi 4 e 4-bis del Codice costituisce un atto a formazione progressiva, composto dall’autodichiarazione dell’interessato e dal “timbro” apposto dall’amministrazione, sostitutivo dell’autorizzazione all’esportazione (attestato di libera circolazione) che resta invece necessaria per le opere d’arte aventi più di settant’anni e valore superiore a 13.500 euro.

Chiarita la natura non procedimentale della dichiarazione, se pur necessitante della vidimazione degli uffici ministeriali, un secondo profilo di indagine riguarda i rimedi a disposizione dell’amministrazione che abbia consegnato all’interessato la dichiarazione sostitutiva vidimata per errore (in quanto, stante l’interesse culturale del bene, avrebbe dovuto invece avviare la dichiarazione di interesse senza consegnare la dichiarazione).


Non trattandosi di un provvedimento, come detto, l’amministrazione non potrebbe procedere all’annullamento in autotutela ai sensi degli articoli 21-octies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.


3. L’esercizio dei poteri in autotutela a seguito della presentazione di un’autodichiarazione

Ci si è chiesto se, in assenza di una formale autorizzazione (attestato di libera circolazione) da annullare, laddove vengano ravvisati profili di illegittimità dell’autodichiarazione e la stessa sia stata già riconsegnata all’interessato vidimata e timbrata per accettazione, venendo a costituire “autonomo titolo per esportare il bene”, l’amministrazione possa intervenire in base ai generali poteri di autotutela riconosciuti dall’ordinamento.


Ci si riferisce all’autotutela c.d. “decisoria”, considerata espressione di un potere generale che non necessita di una disposizione legislativa ad hoc per potere essere esercitata. Essa si configura quando l’amministrazione esercita discrezionalmente un potere di rimozione di provvedimenti precedentemente adottati, che si manifesta ordinariamente attraverso l’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies legge n. 241 del 1990) o attraverso la revoca (art. 21-quinquies legge n. 241 del 1990), in presenza dei presupposti di legge. Poteri in autotutela, che si esplicano mediante provvedimenti inibitori e/o conformativi, sono anche riconosciuti in presenza di dichiarazioni private sostitutive di atti autorizzativi (art. 19, commi 3 e 4, della legge n. 241 del 1990).


Sembrerebbe peraltro in radicale contrasto con l’art. 9 della Costituzione, che tutela il patrimonio culturale, ritenere che l’amministrazione, qualora ravvisi il pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in considerazione dell’interesse storico-culturale del bene, nonché l’errore in cui è incorsa nel riconsegnare all’interessato l’autodichiarazione timbrata, non possa intervenire ex post.


La questione si è posta, in concreto, con riferimento a un’opera di Guttuso, presentata in autodichiarazione all’ufficio esportazione, che aveva riconsegnato all’interessato la dichiarazione vidimata. Successivamente, è emersa l’importanza culturale dell’opera e la necessità di avviare il procedimento dichiarativo del suo interesse culturale, nella specie relazionale, stante la sua realizzazione nel 1983.

Il Ministero, nell’intervenire in autotutela, ha optato per l’esercizio dell’azione inibitoria con richiesta di restituzione del titolo (già consegnato) agli interessati, avviando contemporaneamente il procedimento di tutela. Non essendoci una formale autorizzazione da annullare, e avendo già riconsegnato all’interessato l’autodichiarazione timbrata, che vale quale titolo all’esportazione dell’opera, l’amministrazione ha ritenuto di poter agire in base ai generali poteri di autotutela riconosciuti dall’ordinamento in presenza di dichiarazioni private sostitutive di atti autorizzativi (art. 19, commi 3 e 4, della legge n. 241 del 1990) che si esplicano mediante provvedimenti inibitori e/o conformativi.


Nel decidere la controversia, la sentenza del Tar Lombardia 2059 del 2023 ha stabilito come gli eventuali vizi nell’apprezzamento dell’interesse culturale di un’opera presentata in autodichiarazione non possono che legittimare in linea astratta l’esercizio dell’autotutela “purché entro i limiti oggettivi e temporali previsti dall’ordinamento. Del resto, ciò è previsto persino in casi nei quali ormai neppure si dubita più che manchi il “provvedimento amministrativo”, ma per i quali è comunque consentito all’amministrazione incidere sugli effetti di dichiarazioni private, ove contrari a legalità, come può accadere a fronte di una SCIA assistita dal decorso del tempo. Non vi è pertanto alcuna contraddizione tra l’affermazione del generale potere di autotutela, qualora l'amministrazione abbia mal valutato gli effetti delle autodichiarazioni, e la natura di queste ultime, anche se private ed estranee ad una fattispecie autorizzatoria in senso proprio. Perciò, come deve ritenersi legittima la condotta dell’Ufficio esportazione che rifiuti di riconsegnare alla parte privata la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, vidimata per accettazione, posto che tale documento costituirebbe autonomo titolo per esportare il bene, nonostante non sia stata ottenuta l’autorizzazione prevista in via generale dalla legge (TAR Lazio, 5861/21 citato); così è configurabile l’esercizio del potere di autotutela a fronte dell’autodichiarazione per cui è causa. Difatti, in presenza di una autocertificazione “accettata” dall’Amministrazione, mediante il rilascio di copia vidimata all’interessato, si deve ritenere perfezionato, sia pure tacitamente, un “non dissenso” dell’Amministrazione stessa all’uscita della cosa dal territorio della Repubblica (e, dunque, una determinazione tacita di segno contrario a quella che comporta l’avvio del procedimento di cui all’art. 14 CBC) […] Ne consegue che, essendo stata già riconsegnata all’interessato l’autodichiarazione vidimata – che, va rimarcato, vale quale titolo all’esportazione dell’opera –, l’autotutela è stata legittimamente declinata mediante l’impugnata inibitoria”.


La giurisprudenza ha così avallato l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione anche nel caso dell’autodichiarazione vidimata per errore e consegnata alla parte istante, sempre nel rispetto dei presupposti di legge, tra cui in particolare il termine.


Tale interpretazione appare conforme non solo con i principi del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990 ma anche e soprattutto con l’articolo 9 Cost., che assegna al paesaggio e al patrimonio culturale un valore primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).


In conclusione, si ritiene che l’amministrazione che si avveda dell’errore in cui è incorsa nel timbrare e riconsegnare un’autodichiarazione per l’uscita dal territorio nazionale di un’opera di elevato pregio storico-culturale, possa esercitare le funzioni di vigilanza che le competono in materia di esportazione di opere d’arte e che si esplicano, nel caso di atti privati, nell’adozione di provvedimenti inibitori, sussistendo l’interesse pubblico rilevante.

 

4. Profili sanzionatori

Un ulteriore profilo di dubbio riguarda la valenza penale del caso in cui un soggetto, con riferimento ai casi e alle categorie di beni di cui all’articolo 65, comma 4 del Codice dei beni culturali, ometta di presentare la dichiarazione sostitutiva prescritta, e pur tuttavia esporti l’opera. In particolare, ci si è chiesti se l’ordinamento preveda delle sanzioni di carattere penale e consideri la mancata presentazione dell’autodichiarazione un caso di esportazione illecita (esattamente come si verifica nel caso in cui non venga richiesto l’attestato di libera circolazione). La risposta, dopo le novelle del 2017, sembra essere negativa, se pur con alcune precisazioni.


Al riguardo, va richiamato l’articolo 518 – undecies (Uscita o esportazione illecite di beni culturali) del codice penale, introdotto dalla legge 9 marzo 2022 n. 22, il quale stabilisce che “Chiunque trasferisce all’estero beni culturali, cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali, senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, è punito con la reclusione da due a otto anni e con la multa fino a euro 80.000.  La pena prevista al primo comma si applica altresì nei confronti di chiunque non fa rientrare nel territorio nazionale, alla scadenza del termine, beni culturali, cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali, per i quali siano state autorizzate l’uscita o l’esportazione temporanee, nonché nei confronti di chiunque rende dichiarazioni mendaci al fine di comprovare al competente ufficio di esportazione, ai sensi di legge, la non assoggettabilità di cose di interesse culturale ad autorizzazione all’uscita dal territorio nazionale.


La nuova incriminazione ripropone quasi totalmente il delitto di esportazione illecita di cui all’art. 174 del Codice dei beni culturali, contestualmente abrogato dall’art. 5, comma 2, della legge n. 22 del 2022, sanzionando con pene raddoppiate rispetto alla previgente norma il trasferimento all’estero di beni culturali senza attestato di libera circolazione (per il trasferimento verso Paesi comunitari) o senza la licenza di esportazione (per il trasferimento verso Paesi extracomunitari).


Alla condotta attiva di esportazione illecita è parificata la “condotta omissiva” relativa al mancato rientro “nel territorio nazionale, alla scadenza del termine, di beni culturali, cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali, per le quali siano state autorizzate l’uscita o l’esportazione temporanee e autorizzate”[1].


L’elemento che qui interessa, e che costituisce una novità rispetto al testo del previgente art. 174 del Codice dei beni culturali, è dato da “un’ulteriore condotta del tutto nuova, di stampo falsificatorio (quindi strumentale rispetto alle altre due, in termini di reato mezzo) che estende l’applicazione della medesima pena del comma primo «nei confronti di chiunque rende dichiarazioni mendaci al fine di comprovare al competente ufficio di esportazione, ai sensi di legge, la non assoggettabilità di cose di interesse culturale ad autorizzazione all’uscita dal territorio nazionale». Si tratta di un’ipotesi speciale di mendacio che sostituisce l’ipotesi delittuosa generale di falsità ideologica di cui all’art. 483, comma primo, cod. pen. (in riferimento all’art. 76 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) finora contestabile nelle ipotesi in cui il bene sia esportato a seguito di presentazione di dichiarazione preventiva di esportazione (art. 65, comma 4-bis, cod. beni cult.) falsamente attestante la libera esportabilità dello stesso (in realtà da sottoporre a procedura di autorizzazione all’uscita)[2]”.


Pertanto, l’articolo 518-undecies non sembra considerare quale reato di esportazione illecita l’uscita dal territorio nazionale in assenza di un'autodichiarazione timbrata e vidimata per accettazione dagli uffici esportazione del Ministero, nei casi in cui essa sia prevista (come nelle nuove ipotesi introdotte dalla legge n. 124 del 2017), ma, al contrario, considera reato solo la dichiarazione falsa e mendace resa in sede di esportazione.


Con la sentenza n. 17814 del 2020 la Corte di Cassazione, sezione penale, in tema di esportazione illecita di un crocefisso ligneo di età superiore ai 70 anni e di valore economico inferiore ai 13.500 euro, ha ritenuto che non potesse considerarsi reato l’esportazione di detto crocefisso ligneo avvenuta senza passare per l’ufficio esportazione, stabilendo che “in definitiva quindi, le modifiche intervenute nel 2017 hanno inciso sull’attuale struttura del reato sottraendo dalla fattispecie incriminatrice le condotte di esportazione che hanno ad oggetto cose che presentano interesse culturale di non eccezionale rilevanza diverse da reperti archeologici, dagli elementi provenienti dallo smembramento di monumenti, dagli incunaboli e manoscritti che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni di valore pari o inferiore ad euro 13.500 €. Si tratta di modifica indubbiamente più favorevole, immediatamente applicabile ai sensi dell’articolo 2 comma 2 del Codice penale anche ai fatti pregressi. Il trasferimento all’estero di cose di interesse culturale di non eccezionale rilevanza di cui all’articolo 65 comma 3 lettera a) decreto legislativo n. 42 del 2004, diverse da quelle di cui all’allegato a lettera B numero 1 è di valore pari o inferiore ad euro 13.500 non integra pertanto il reato di cui all’articolo 174 comma 1 del decreto legislativo n. 42 del 2004 con la conseguenza che le modifiche siccome introdotte, in quanto incidono sulla struttura del reato di cui all’articolo 174 citato, restringendone l’ambito applicativo, si applicano anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore”.


L’orientamento illustrato è stato corretto dalla Corte di Cassazione, sezione penale, con la successiva sentenza n. 25343 del 2023 (sempre riguardante il crocefisso ligneo), in cui si è comunque precisato che, nel caso di beni di età superiore ai 70 anni e di valore economico inferiore ai 13.500 euro, per cui deve essere presentata una autodichiarazione (DVAL), l’uscita dal territorio nazionale non è libera ma è pur sempre soggetta a una procedura volta a verificare, attraverso la documentazione prodotta in allegato all’autodichiarazione, se il bene ha effettivamente le caratteristiche per poter essere esportato senza il rilascio dell’attestato di libera circolazione e anche a consentire all’amministrazione di valutare se il bene presenti un interesse artistico, storico archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione e come tale possa esserne vietata l’esportazione [3].

In tali ipotesi, resterebbe comunque applicabile quanto previsto dall’articolo 165 del Codice dei beni culturali in materia di sanzioni amministrative[4].

 

5. Conclusioni

In conclusione, può dirsi che criticità e antinomie concernenti l’autodichiarazione (tra cui la natura della stessa, i poteri di autotutela e i profili sanzionatori) potrebbero dirsi parzialmente risolti grazie anche al puntuale contributo della giurisprudenza. Tuttavia, pur essendo ormai trascorsi diversi anni dalla riforma, non pare ancora sufficientemente esplorato e approfondito l’impatto che la stessa ha avuto sul mercato dell’arte, con particolare riguardo all’effettivo conseguimento del beneficio alla circolazione mediante le previsioni semplificatorie adottate.

 

Bibliografia

  • Legge 124/2017, recante la “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”

  • D.lgs. 42 del 2004, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio”

  • Legge n. 241 del 1990, recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”

  • Codice penale, articolo 518 – undecies “Uscita o esportazione illecite di beni culturali”

  • TAR Lombardia n. 2059 del 2023

  • TAR Lazio n. 5861 del 2021

  • Corte di Cassazione, sezione penale, n. 25343 del 2023

  • Corte di Cassazione, n. 17814 del 2020

 

[1] Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Servizio Penale. Relazione su novità normativa. Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale (legge 9 marzo 2022 n. 22). Relazione n. 34/22. Roma, 21 giugno 2022, pp. 44 e ss.

[2] Ibidem.

[3] La rilevanza penale della condotta di esportazione (illecita) potrebbe pertanto essere applicata anche con riferimento a beni di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga a oltre settanta anni, di valore inferiore a 13.500 euro, laddove il bene sia dichiarato di eccezionale rilevanza dopo l’attuazione delle procedure di cui all’articolo 65, comma 4-bis, del Codice dei beni culturali. La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato che “Si tratta a ben vedere di una procedura di esportazione semplificata, ma non del tutto libera, in quanto l’uscita del bene dal territorio nazionale è pur sempre soggetta ad un controllo da parte dello Stato che si esercita attraverso l’iter definito dal decreto ministeriale sopra richiamato. La normativa introdotta a seguito della riforma del 2017 non ha liberalizzato la esportazione di quella categoria di beni, ma ha solo semplificato la procedura di esportazione, prevedendo un intervento dell’amministrazione nelle forme anzidette, funzionale a negare la esportabilità del bene, qualora lo stesso sia ritenuto di interesse eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione. Solo a seguito del completamento della procedura ivi prevista, potrà dirsi, nel caso in cui non venga avviata la declaratoria di vincolo di eccezionale interesse ai sensi dell’art. 10 comma 3 lett. d-bis d.lgs. n. 42/2004, che il bene sia esportabile. Pertanto, secondo la Corte di Cassazione “non integra reato il trasferimento all’estero di cose di interesse culturale di valore pari o inferiore a 13.500 euro, non di eccezionale rilevanza: tale ultima condizione potrà essere acclarata solo a seguito della attivazione della procedura di cui all’art. 65 comma 4 bis d.lgs. n. 42/2004. Tutto ciò premesso, il giudice del rinvio, nel valutare la confiscabilità del bene, è tenuto a valutare la astratta configurabilità della fattispecie di reato di cui all'art. 518 undecies cod. pen., così come integrata dalla normativa del d.lgs. n. 42/2004, nella sua completezza e a considerare che la rilevanza penale della condotta di esportazione permane anche con riferimento a beni di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, di valore inferiore a 13.500 euro, laddove il bene sia dichiarato di eccezionale rilevanza, dopo la necessaria attivazione della procedura di cui all’art. 65, comma 4-bis, cit., dettagliata nel Decreto Ministeriale. A tal fine si ricorda che la valutazione in ordine all’esistenza di un interesse culturale (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) eccezionale, tale da giustificare l’imposizione del relativo vincolo ai sensi degli artt. 13, comma 1, e 10, comma 3, lett. d-bis), d.Lgs. n. 42 del 2004, è prerogativa esclusiva dell’Amministrazione preposta alla gestione del vincolo e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta (Cons. St., Sez. 6, n. 4747 del 14/10/2015, che richiama, in motivazione, le precedenti sentenze n. 1000/2015, n. 3360/2014, n. 2019/2014 e n. 1557/2014)”. Inoltre, in tema di confisca delle opere illecitamente esportate, prosegue la Corte di Cassazione nell’ambito della stessa sentenza (n. 25343 del 2023), “il giudice dispone in ogni caso la confisca delle cose indicate nell’art. 518 undecies che hanno costituito oggetto del reato”. Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che tale confisca deve essere disposta obbligatoriamente anche in caso di decreto di archiviazione emesso per cause che non attengono alla sussistenza del fatto (salvo che la cosa appartenga a persona estranea al reato), poiché trattasi di misura recuperatoria di carattere amministrativo la cui applicazione è rimessa al giudice penale a prescindere dall’accertamento di una responsabilità penale (Sez. 3, n. 11269 del 10/12/2019, dep. 2020, The Pierpont Morgan Library, Rv. 278764; Sez. 3, n. 19692 del 21/03/2018, Gour, Rv. 272870). Si è, infatti, sostenuto, che la disciplina dei beni culturali è retta da una presunzione di proprietà statale e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti, con la conseguenza che essi, sulla base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa, appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909; regio decreto n. 363 del 1913; legge n. 1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente invariata anche a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Da ciò deriva la finalità prioritariamente recuperatoria della confisca stabilita dall’art. 174, comma 3, del d.lgs n. 42 del 2004 (oggi art. 518 duodevicies cod. pen.), volta a ripristinare materialmente la situazione di dominio che, ex lege, lo Stato vanta sui beni in questione, situazione di dominio evidentemente violata attraverso la illecita esportazione del bene in discorso al di fuori dei confini dello Stato […] la relativa confisca deve essere obbligatoriamente disposta anche se il privato non ha riportato condanna, fatta salva la sola eccezione che la cosa appartenga a persona estranea al reato: non a caso l’articolo 518 duodevicies cod. pen. (cosi come il precedente art. 174, comma 3, d.lgs n.42/2004), stabilisce che la confisca ha luogo ai sensi della disciplina prevista dalla legge doganale, in base alla quale la misura di sicurezza viene disposta anche a prescindere da una sentenza di condanna, essendo stata fatta salva solo l’ipotesi che i beni appartengano a persone estranee al reato, quale ad esempio la persona che abbia acquistato in buona fede (Sez. 3, n. 18535 del 08/02/2022, Besputin, Rv. 283134 secondo cui la confisca obbligatoria, prevista per il reato di contrabbando doganale dall’art. 301 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), deve essere disposta anche con il decreto di archiviazione emesso per cause non attinenti alla sussistenza del fatto e al rapporto con il soggetto autore”.

[4] Articolo 165 del Codice dei beni culturali: […] chiunque trasferisce all'estero le cose o i beni indicati nell''articolo 10, in violazione delle disposizioni di cui alle sezioni I e II del Capo V del Titolo I della Parte seconda, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 77,50 a euro 465”.

 

Abstract italiano

L’articolo intende illustrare come, alla luce delle novelle legislative del 2017 che hanno modificato l’articolo 65 del decreto legislativo n. 42 del 2004 recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, l’estensione del regime dichiarativo a nuove ipotesi in sede di esportazione di opere d’arte abbia comportato la necessità di sciogliere nodi interpretativi di rilievo, relativi alla natura della dichiarazione, all’intervento in autotutela dell’amministrazione e agli eventuali profili sanzionatori nel caso di esportazione senza dichiarazione.


Abstract inglese

The article aims to illustrate how, in light of the 2017 legislative changes that modified article 65 of Legislative Decree No. 42 of 2004, known as the "Cultural Heritage and Landscape Code," the extension of the self-declaration procedures to new cases of exportation has led to deal with significant interpretation issues related to the nature of the aforementioned self - declarations, to the self-defense of the administration and to the potential sanctions in cases of exportation without that declaration.

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